L’annuncio di qualche giorno fa, passato in sordina e rilanciato da un bell’articolo di Federico Fubini sul Corriere, riguarda la decisione di Enel, importantissima azienda italiana partecipata dal Ministero dell’Economia e Finanze, di costruire un impianto per la produzione di pannelli fotovoltaici a Inola, Oklahoma, negli Stati Uniti. L’investimento previsto supera il miliardo di dollari, con il potenziale di un raddoppio in futuro. Questo progetto è stato accolto con grande enfasi negli Stati Uniti e ha ricevuto il sostegno entusiasta del presidente Joe Biden e dei capi nativi americani delle tribù Cherokee e Creek.
Il contesto in cui si inserisce questa decisione riflette un cambiamento nel mondo. Dopo tre decenni di globalizzazione basata sul libero mercato e frontiere aperte, si è entrati in un sistema internazionale in cui la sicurezza energetica, la stabilità sociale interna e le rivalità strategiche con le autocrazie emergenti determinano le politiche industriali. Gli Stati Uniti e l’Unione europea stanno adottando politiche industriali, dirigismo, sussidi, dazi e trattamenti preferenziali, ponendo una maggiore enfasi sulla sicurezza, l’occupazione e l’indipendenza energetica e tecnologica. In Italia, che pure è dentro all’Unione Europea, cosa stiamo facendo?
Io capisco le migliori condizioni finanziarie offerte dagli Stati Uniti alla nostra Enel, ma non capisco perché il suo azionista di maggioranza, ovvero il MEF, ovvero lo Stato, ovvero noi, non abbia rilanciato con un piano di supporto altrettanto robusto; o in presenza di vincoli europei che ancora non permettano la stessa aggressività americana, non si stia battendo a Bruxelles per permettere che investimenti di questa misura e soprattutto di questa importanza strategica in termini di approvvigionamento energetico e impatto tecnologico rimangano nel nostro Paese, mentre nel frattempo eserciti attraverso i suoi referenti nell’organo di governo societario uno stop a questo progetto fuori Italia e fuori Ue.
Enel, come detto, è una società partecipata dallo Stato attraverso il MEF per poco meno del 24%, è sottoposta ad una forma di controllo diretta da parte della Corte dei Conti ed è cruciale il suo ruolo nella transizione energetica del nostro paese, con un accorto e lungimirante indirizzo politico in tal senso. Inoltre l’indotto economico diretto e indiretto e il conseguente indotto fiscale, unito all’impatto occupazionale anche qui diretto e indiretto, porta a pensare ancora di più che sia poco opportuno delocalizzare una produzione così strategica sotto tutti i punti di vista; non solo fuori dal nostro Paese, che mi rifiuto di credere non abbia un sito idoneo, ma perfino fuori dalla nostra Unione.
Questo progetto dimostra una preoccupante subordinazione dell’Europa nei confronti degli Stati Uniti e un ancor più preoccupante affidamento a tecnologie consolidate, che hanno però criticità nella filiera dell’approvvigionamento delle materie prime. Invece che riaprire vecchie miniere senza considerare i costi industriali e ambientali come vagheggiato dal Ministro Urso qualche giorno fa, dovremmo puntare sui nuovi materiali su cui la ricerca internazionale è già uscita dalla sperimentazione e in certi casi anche dalla prototipazione proprio ad opera di quella industria cinese che sia Usa che Ue tanto temono e che invece dimostra di essere ancora una volta un passo avanti. Vedi caso batterie a sale per prima citycar cinese.
Questa assenza di lungimiranza politica e industriale l’avevo già assaggiata nella mia ricerca di un partner manifatturiero per la produzione di impianti eolici off shore nel sito del porto di Civitavecchia, che ha le dimensioni, il posizionamento e la disponibilità di accogliere un’altra industria strategica per i prossimi anni per tutto il bacino del Mediterraneo. Adesso la ritrovo con questa notizia, che non fa ben sperare per la sovranità energetica del nostro Paese.
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